Romanticizzare significa dare
all’ordinario un senso superiore,
al quotidiano un’apparenza di mistero,
al cognito la dignità dell’ignoto,
al finito una sembianza d’infinito
Novalis
Succede a volte per gli scacchi come per la letteratura. Anche chi, come me, per vocazione ed esigenze professionali frequenta la narrativa contemporanea, sente spesso il bisogno di tornare al proprio canone di grandi: Manzoni, Verga, Dickens, Gogol, Cechov, Flaubert, Maupassant, Zola, London, Pirandello, Kafka e tanti altri. Per non parlare della poesia e del pensiero filosofico e storiografico. Negli scacchi, poi, il contrasto sembra ancora più stridente: i giocatori attualmente ai vertici della classifica mondiale saranno a modo loro fortissimi (ci mancherebbe) ma raramente le loro partite appassionano. Ecco: sembra non esserci pathos, sembra non esserci quello spirito che animava i grandi del passato, ma piuttosto sembra di assistere all’esecuzione di spartiti digeriti nel corso della costante frequentazione dei motori. In breve: manca lo stile. Lo stile è il quid che ci connota, è un insieme di tratti distintivi, in cui si concentrano temperamento, cultura, esperienza vissuta (l’erlebnis dei tedeschi). ‘Le style c’est l’homme’ diceva Georges-Louis Leclerc de Buffon: lo stile è (anche) lo scacchista, si potrebbe dire. Quanti di noi sarebbero in grado, se non si sapessero in anticipo i nomi dei contendenti, di riconoscere sulla scacchiera la diversità fra un So e un Nakamura, fra un Caruana e un Anand? Cosa invece possibile se si dovesse riconoscere la diversità fra un Petrosjan e un Bronštejn, fra un Botvinnik e un Larsen. La varietà e la genialità degli scacchisti degli anni ’50, ’60 e ’70 appartengono a una stagione irripetibile, con perle che, man mano che si allontanano negli anni, vedono rinvigorire il loro splendore. Prospettiva che può valere anche per la musica degli stessi decenni: a partire dai Beatles, dai Rolling Stones e dai grandi cantautori italiani.
Ecco farsi avanti l’ingegner Michajl Botvinnik, le cui migliori partite sono, appunto, un progetto ingegneristico perfetto in ogni sua parte, una struttura in cui ‘tout se tient’. Ecco Tigran Petrosjan, scacchista per palati fini, di proverbiali solidità e forza difensiva, con mosse come mattoncini disposti con pazienza uno dopo l’altro a edificare muri di granito. Poi Bent Larsen e il suo coraggioso sperimentalismo: fu uno dei pochi a opporsi allo strapotere sovietico negli anni d’oro. Ancora: la complessa semplicità (mi si passi l’ossimoro) di Vasilij Smyslov, la creatività di David Bronštejn: autore fra l’altro di quello che viene considerato uno dei più bei libri di scacchi, Il torneo internazionale dei Grandi Maestri – Neuhausen/Zurigo 1953, con un commento alle partite di elevato valore tecnico e formativo. Invoca una citazione anche il ‘terribile’, Viktor Korčnoj, irriducibile combattente della scacchiera. Infine, in questa rivisitazione necessariamente sommaria, concedo uno spazio a qualche mio pallino personale, come Ljubomir Ljubojević, uno dei più forti giocatori slavi di tutti i tempi: ai vertici mondiali negli primi anni ’80, si caratterizza per uno stile aggressivo e spesso travolgente. O come Henrique Mecking, brasiliano di origine tedesca. Talento precocissimo, fu strepitoso in alcuni tornei degli anni ’70. Del passato più lontano cito solo Aleksandr Alechin: ovvero gli scacchi, ed è detto tutto.
Ho lasciato per ultimi i due geni forse più grandi e qui è arrivato finalmente il momento di rispondere all’ottimo Fabio Marino, fischeriano doc, ideatore e anima di questo sito, che mi ha affettuosamente sollecitato a dire la mia. Da inguaribile letterato (ormai dovrebbe essere lampante che sono un caso disperato), prendo in prestito alcune categorie letterarie. Robert James Fischer è, per me, il tipo del maudit decadente, del cupo solipsista, destinato forse a un’esistenza grigia, se le risorse segrete del suo inconscio non avessero trovato un loro misterioso e felice approdo negli scacchi. Per Fischer, l’intrattabile introverso misogino Fischer, gli scacchi furono la salvezza e l’apoteosi per buona parte della sua vita. È un giocatore universale, come dice Fabio: in lui si attua una perfetta sintesi di profonda visione strategica e geniale senso tattico. Tantissime sue partite sono puro godimento, oltre che straordinaria palestra di dettami scacchistici.
Ma le ardue praterie della scacchiera, in quel periodo, furono attraversate anche da uno spirito che definirei romantico: Michail Tal’, non a caso soprannominato il ‘Mago di Riga’ (che mi fa venire in mente il ‘Mago del nord’, appellativo del preromantico Johann Georg Hamann). Tal’ è il più forte giocatore combinativo in assoluto, oltre a essere uno dei più grandi quanto a capacità di analisi che cervello umano abbia potuto o possa esercitare sulle 64 caselle. Per lui ho scomodato all’inizio il grande Novalis. Le sue partite, vere e proprie avventure dello spirito, rappresentano metaforicamente una fra le pulsioni più struggenti della vita: quella della voluttà nell’esperire l’ignoto. Non c’era posizione che non potesse essere complicata e trascinata su insondabili vie dal grande lettone, con sacrifici spesso determinanti ai fini della vittoria, a cui nessun altro avrebbe saputo pensare. Creava labirinti di cui solo lui, alla fine, sapeva trovare la via d’uscita. Se l’infinito si manifesta per fuggevoli epifanie nella coltre spesso oppressiva del finito, un sentore d’infinito è nelle sue mosse più belle, in partite che fino a un certo punto sembrano adagiarsi nel ‘sonno’ posizionale. Ecco: quando la partita sembra incanalarsi su binari più o meno scontati, il genio ‘romantico’ fa scoccare la scintilla. Inizia un’altra partita, inizia un’altra storia, ci si inoltra nei meandri dell’ignoto, in cui Tal’ si muove come un rabdomante, con un senso dell’orientamento inaccessibile agli altri.
Fischer delizia. Tal’ emoziona.
Devi aver fatto il login per pubblicare un commento.